“Come è diventata grande…!” riferendosi alla figlia della ex collega che non rivedeva da anni…”come sono diventate grandi…” guardando di sfuggita quelle sorelle accolte bambine in comunità e ora diventate giovani donne.

Potendo conteggiare le parole scambiate durante la festa l’aggettivo “grande” forse è stato il più pronunciato, combinando stupore e una quota di nostalgia per il tempo che passa.

Come siamo diventati grandi è anche l’impressione di fronte alla foto che ritrae i soci fondatori della cooperativa, con le pennellate di bianco sui capelli a ricordarci che sono davvero trascorsi 25 anni dalla firma di fronte ad un notaio in quei giorni di aprile del 1994, quando tutto attorno il mondo stava cambiando.

Grande è diventata questa Libera Compagnia che si è festeggiata chiamando a raccolta i soci e i lavoratori insieme a chi l’ha attraversata lasciando un segno, insieme alle persone che collaborano con noi, nei territori, per offrire servizi capaci di generare legami sociali.

Così grande che sabato era davvero impossibile abbracciare tutti in uno sguardo d’insieme, perché è stato un flusso ininterrotto di arrivi, di saluti, di incontri, di emozioni, respirando diffusamente un’ aria di famiglia, soprattutto guardando i volti di tante persone che hanno lavorato insieme e che per un attimo hanno ricomposto l’equipe con la quale hanno trascorso esperienze indimenticabili.

Come siamo diventati grandi: i numeri lo dicono da un po’ di tempo, ma forse ci voleva un’immagine plastica per rendere davvero l’idea delle dimensioni e della portata.

Diventare grandi per una cooperativa, lo sappiamo, è tanto una risorsa quanto un problema. E’ una risorsa perché ci rende solidi nell’affrontare le criticità del presente, per reggere gli urti e rilanciare in termini di possibile innovazione dei servizi.

E’ un problema perché cooperazione significa anche partecipazione d’impresa e farlo in pochi è un conto, praticarlo in tanti è ovviamente tutta un’altra storia.

Ci voleva allora un momento come questo, forse un rito di passaggio, a ricordarci le origini, a metterci in contatto con le radici di questa esperienza, per darci anche il senso di ciò che siamo diventati, attraversando con la leggerezza di una festa tutta la memoria di futuro condensata nei sorrisi di stupore di chi è solo all’inizio di questa storia.

Un momento di passaggio che mi fatto tornare alla mente le parole che si intrecciano in un dialogo tra John Berger e Arundathi Roy e che avrei voluto consegnare ad ogni persona che ha varcato la soglia dell’Abbazia di Mirasole di questo sabato d’aprile.

“Pensiamo che valga  la pena di vivere finché si è vivi e di morire solo quando si è morti. Che cosa significa esattamente ? Amare. Essere amati. Non dimenticare mai la propria insignificanza. Non abituarsi mai alla violenza indicibile e alla volgare disparità della vita che ci circonda. Cercare la gioia nei luoghi più tristi, inseguire la bellezza là dove si nasconde. Non semplificare mai ciò che è complicato e non complicare ciò che è semplice. Rispettare la forza, mai il potere. Soprattutto osservare. Sforzarsi di capire. Non distogliere mai lo sguardo. E mai, mai dimenticare” (A.Roy, J.Berger)

A.M.